Le microplastiche stanno inquinando tutto il mondo, dall’oceano alle zone più alte del pianeta, quindi anche le nostre vette. Le domande che ci poniamo è come hanno fatto a raggiungere i ghiacciai e quale pericolo rappresenta per noi e gli altri organismi. Domande che sono stata inoltrate all’esperto Roberto Ambrosini Professore di Ecologia presso l’Università Statale di Milano.
“Le microplastiche in montagna possono arrivare tramite tre vie – ha spiegato Ambrosini – la prima è la degradazione delle macroplastiche – ovvero dei frammenti più grossi di 5 millimetri – che vengono lasciate deliberatamente o accidentalmente in montagna da chi frequenta questi ambienti. Quando si deteriorano diventano frammenti di microplastica, che essendo più piccoli sono anche più mobili e possono circolare con maggiore facilità nell’ambiente. Si può trattare poi di microplastiche rilasciate già nell’ambiente con quel range di dimensioni, che potrebbero derivare dall’usura dei capi tecnici o dei materiali che vengono usati durante le attività di montagna – per fare un esempio, anche le suole degli scarponi si consumano, rilasciando frammenti.
Un’altra grande fonte è quella degli input esterni, ovvero la microplastica che arriva in montagna tramite trasporto aereo e che poi può raggiungere il suolo mediante deposizione secca o umida, ovvero assieme alle precipitazioni. Le nevicate, da questo punto di vista, sono efficientissime: quando i fiocchi di neve scendono, trasportano a terra tutto il particolato presente in atmosfera. Fanno così depositare i contaminanti, incluse le microplastiche.
Scoperte recenti portano con sé incertezze e bisogno di altri studi
È importante sottolineare come al momento non abbiamo ancora alcuna idea su quale sia la consistenza relativa dei tre meccanismi indicati: non sappiamo quanta microplastica arriva da quale trasporto, se sia più importante come quantitativo quella che si produce in loco o quella che viene trasportata dal vento”.
Gli studi relativi alla presenza della microplastica nei ghiacciai sono recentissimi,
il primo pubblicato nel 2019 porta la firma di Ambrosini e altri colleghi della Statale e della Bicocca.
Inizialmente è stato studiato il ghiacciaio dei Forni, in Alta Valtellina, ma Ambrosini e i suoi colleghi hanno effettuato campionamenti anche in Norvegia (ghiacciaio Steindalsbreen), alle Svalbard (ghiacciai Midtre Lovenbreen e Lonyearbreen), in Patagonia (ghiacciaio Exploradores) e vicino a Santiago del Cile (ghiacciaio Iver).
Come concentrazione si è intorno a circa 100 frammenti di putative microplastiche per chilo di detrito – definite putative perché devono ancora essere caratterizzate, per essere sicuri che non ci siano molti frammenti di natura organica. Sul ghiacciaio dei Forni, per il quale questo processo è stato completato, sono stati trovati circa 74 frammenti per chilo di detrito, paragonabili a un sedimento marino costiero europeo: si tratta di concentrazioni davvero altissime. I materiali più diffusi sono poliestere, poliammide, polietilene e polipropilene.
Si sa poco sui possibili rischi per le piante, gli animali e per noi esseri umani. In generale non sono stati documentati drammatici effetti negativi – e questo fa abbastanza ben sperare -, ma i comparti ambientali indagati sono stati per ora pochi, per di più acquatici, sugli organismi degli ambienti montani non c’è praticamente nulla. È ancora tutto da studiare.
Mercoledì, 24 marzo 2021