Conosciamo tutti gli effetti spesso distorsivi delle statistiche e la loro pretesa di fotografare attraverso numeri e prospetti fenomeni umani e sociali soggetti a centinaia di variabili che sfuggono alle semplificazioni imposte dalle medie matematiche. Il poeta romano Trilussa diceva che la statistica è la scienza secondo la quale se tu mangi due polli al giorno ed io nessuno, tu e io mangiamo in media un pollo al giorno a testa.
Il rapporto dell’Istat presentato ieri non sfugge a questa regola nell’illustrare «la correlazione tra la mappa della diffusione della pandemia e quella della sopravvivenza persa in base ad anni vissuti», sfornando dati preoccupanti sugli effetti presenti e presunti sulla speranza di vita degli italiani e sul nostro probabile futuro demografico.
Così si arriva ad ipotizzare che in bergamasca ogni nato di oggi può sperare di arrivare a quasi 77 anni di vita se maschio e 82 anni e mezzo se femmina, rispettivamente oltre quattro anni e tre anni in meno rispetto alla situazione pre-pandemica. In pratica si è tornati nella bergamasca alle medesime prospettive di vita dell’anno 2003.
Nei primi decenni del dopoguerra l’aspettativa di vita degli uomini si aggirava sui 50 anni ed ha raggiunto gli 82 prima che iniziasse il calo recente: quel miglioramento venne favorito dalla quasi totale sconfitta della mortalità infantile e dalla diffusione di corrette regole d’igiene personale e ambientale, oltre che dalla maggiore attenzione alla prevenzione sanitaria ed alle misure di sicurezza nei luoghi di lavoro, sebbene in questo specifico campo ci sia ancora molto da fare per evitare, ad esempio, raccapriccianti incidenti come quello di Prato nel quale ieri è rimasta vittima una madre ventiduenne.
Nello scorso anno nell’Italia nel suo complesso si è ridotta di quasi un anno e mezzo per gli uomini ed un anno per le donne l’aspettativa di vita, un dato di sintesi che non segue un trend lineare e che ha visto altre annate negative, come il 2003 con la mortalità prodotta dall’ondata di calore anomalo o l’inverno particolarmente rigido tra il 2014 ed il 2015 che favorì la diffusione di un’influenza molto aggressiva e letale.
Nel tentativo di correggere la tendenza in corso e ripristinare il ritorno ad una più lunga prospettiva di vita non si possono trascurare tutte quelle patologie diverse dal CoViD per le quali, a causa della pressione sul sistema sanitario, si è ridotta l’attenzione per oltre un anno: per quelle patologie, in prevalenza croniche, si è un po’ accantonato il percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale, con presumibili gravi conseguenze come la riduzione quantitativa e qualitativa della vita dei pazienti.
Nella bergamasca in tutto il 2020 si sono contati seimila decessi in più rispetto agli anni immediatamente precedenti, una mortalità aumentata del 60,7% che ha avuto l’effetto di ridurre la popolazione del 7,7% portandola sotto il milione e centomila residenti.
L’Istat, nel suo report, illustra anche un altro problema, un argomento opposto a quello dei decessi ma in grado di incidere allo stesso modo sulla riduzione demografica in Italia: il calo della natalità, ormai una curva in discesa a picco nel 2020. Nella bergamasca, ad esempio, ci sono state in tutto l’anno poco più di 7.700 nascite, il 7,3% in meno rispetto al 2019.
Se nel 2008 cento donne bergamasche davano alla luce 158 figli, ora sono solo 128 i nuovi nati dallo stesso numero di donne. Basta osservare i dati di dicembre a livello nazionale, che misurano un calo delle nascite record, per rendersi conto della serietà del problema e della sua difficile soluzione se non si rimuovono tutti gli ostacoli sociali, normativi, organizzativi ed economici che ancora impediscono alle famiglie di crescere.
Martedì, 4 maggio 2021